Parrocchia  

   

La Riflessione di Don Tonino

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FINESTRA E GRATA


Carissimi amici,

è ancora forte in me l'emozione del 27 settembre. La celebrazione delle Messe domenicali mi ha permesso di conoscere molti di voi, dai bambini agli adulti, passando per la vivacissima comunità giovanile. Alcune cose ve le ho comunicate durante l'omelia, cercando di far parlare il cuore; altre ce le diremo cammin facendo. Vorrei approfittare di questo primo spazio all'interno del sito, oltre che per ringraziare il Signore del grande dono che mi ha fatto permettendomi di incontrarvi e starvi accanto in questo tempo che si apre, soprattutto per presentarmi, dirvi un po' di me e del mio essere prete. Proverò a spiegare cosa significa per me essere sacerdote attraverso due immagini che appaiono opposte tra loro, ma forse sono in realtà correlate: una finestra e una grata.

Questi miei primi quattro anni di sacerdozio sono stati un po' atipici; non li ho trascorsi in parrocchia, in mezzo ai ragazzi, come capita di solito a un giovane prete (sebbene non siano mancate per brevi periodi esperienze simili), ma il Vescovo mi ha chiesto di approfondire lo studio della Bibbia a Roma. Dunque sono stati anni di impegno accademico, che spero mi aiutino a comunicare a tutti che nella Parola di Dio noi troviamo il cuore di Dio e che solo quella di Gesù è una Parola di vita eterna, come dichiarò solennemente Pietro quando, in un momento di crisi, allorché il Maestro chiese ai discepoli se volessero andarsene anche loro, capì che valeva ancora la pena seguire il Signore. Solo la Parola di Gesù, infatti, riempie il cuore e la vita.

Ma cosa c'entra la finestra? Eccolo spiegato. La finestra della mia camera a Roma dava su Santa Maria Maggiore. Mi piaceva guardare la basilica nella sua imponenza, ma soprattutto vedere così tanti pellegrini, provenienti da tutto il mondo, con i loro colori, canti e danze. E poi in primavera i ragazzi in gita scolastica, che con le loro urla e la loro allegria...non favorivano la mia concentrazione...ma mi facevano tanta compagnia. Vedevo però anche tanti ammalati in carrozzina, anziani e giovani, portati dentro la basilica da mani robuste e generose. E immaginavo quanta sofferenza e quanta speranza - se non di una guarigione almeno di un miglioramento o di un po' più di serenità - accompagnasse il loro tragitto fino all'ingresso nella chiesa. Mi veniva in mente papa Giovanni XXIII, quando racconta di quei due fidanzati in piazza san Pietro, che lui vede dal suo studio e che benedice.

Anch'io ho benedetto questi ammalati; è l'unica cosa che potevo fare per loro. Credo che buona parte del mio sacerdozio sia racchiuso in tale gesto. Essere prete significa benedire, dire bene, dire cioè una novità di bene per tutti, ma soprattutto per quelle persone che più di altre sono castigate dalla vita, si sentono prigioniere di un corpo che non riescono a comandare più. Significa presentare al Signore tutti gli uomini, non solo quelli che hai modo di incontrare e magari aiutare personalmente, ma anche quelli che intravedi per un attimo, di cui forse intuisci un dolore o un'attesa. Il sacerdote ha il compito di affidare al Signore queste persone, metterle cioè in mani sicure, certo che, come dice Gesù nel Vangelo di Giovanni, nessuno potrà mai strapparle dalle sue mani.E grazie a questo "servizio" del sacerdote, che bussa al cuore del Padre, la benedizione giunge inaspettata e gratuita dal cielo, come pioggia che fa germogliare la vita in quella terra arida e devastata che spesso è il cuore dell'uomo.

La finestra, dunque, non mi ha permesso soltanto di cogliere un magnifico scorcio di Roma; è diventata una finestra aperta sul cuore dell'uomo. Da lì poi lo sguardo si innalza fino al cuore di Dio: il prete è infatti chiamato a sintonizzarsi con i sentimenti di Gesù per essere nel mondo presenza visibile di Cristo. Questa è la straordinaria chiamata di ogni cristiano. Non comprenderemo mai abbastanza la grandezza del dono e del compito ricevuti: ciascuno deve poter essere per il proprio fratello un riflesso del volto stesso di Dio! E il presbitero ha la responsabilità di aiutare la gente a lasciarsi conquistare dal fascino di quel volto e di suscitare il desiderio di essere per gli altri immagine credibile dell'amore.

Certe finestre, però, più che aprirti un mondo e schiuderti davanti un panorama mozzafiato, te lo chiudono, diventano una barriera fra te e ciò che ti circonda. Questa è l'immagine della grata. Se pensiamo alle grate di un monastero di clausura, specialmente se abbiamo una qualche idea della vita e dello spirito che anima una comunità di monache, ci accorgiamo di come le grate in realtà non siano un ostacolo, ma il segno dell'appartenenza a Dio per il bene dell'uomo. Da un po' di tempo a questa parte, invece, penso spesso ad altre grate, ben più spesse, vale a dire le sbarre di una prigione.

Quelle sì che sono il segno di una separazione drammatica e qualche volta definitiva. Ho svolto per alcuni mesi il servizio di cappellano in carcere e mi rendo conto di quanta sofferenza ci sia al di qua delle grate. Le grate sono come una diga che contiene un fiume in piena di amarezza, senso di colpa, rabbia, disagio a tanti livelli. Sono soprattutto causa di incontri perduti. Quanti incontri perduti nella nostra vita! Più passano gli anni, più uno lo capisce. Se ne rendono conto soprattutto i detenuti.

Ho conosciuto in particolare Mario (lo chiamerò così), in carcere da più di vent'anni. A causa di quelle sbarre (chiaramente a motivo dei crimini compiuti in passato) ha perduto gli incontri più importanti: la crescita dei suoi figli, la nascita dei nipoti, la percezione della vita fuori da quei pochi metri quadrati, e ogni giorno perde il contatto con gli altri carcerati (non gode delle ore di socialità: lui non è un detenuto comune!) e perde il cielo col tramonto del sole (la sua cella gode di una scarsa visibilità). Però c'è un incontro che non perde mai. È un convertito, e io sono certo che non c'è giorno in cui lui manchi la visita di Dio: un po' perché non ha molto altro da fare, e la preghiera diventa una distrazione e un appiglio; ma soprattutto perché ha capito che solo il Signore può dare senso alla sua vita passata (tutta sbagliata) e valore alla sua vita attuale, apparentemente assurda. E quest'incontro - ne sono testimone - fa fiorire tutto il bene che c'è in lui.

È una persona mite, sorridente, gradevole. Il mio compito di prete è stato quello di sostenere e incoraggiare la fatica di quest'uomo di dare dignità ai suoi giorni, coltivare i pensieri più alti, scoprire la sorprendente misericordia di un Dio che va oltre il male e cerca l'uomo in qualunque strettoia si sia cacciato o sia ora confinato. Il mio dovere di sacerdote è stato addirittura quello di indicare quei pochissimi metri quadrati come lo spazio di un cammino di santità. Il Signore ci chiama alla perfezione in qualunque stato di vita e in qualunque luogo in cui noi ci troviamo, sia esso la cella di un monastero o quella di una prigione.

Vedere che queste sollecitazioni sono raccolte, riuscire ad aiutare una persona a sperare contro ogni evidenza, è una gioia che non cambierei con nessun'altra emozione. Il prete ha il privilegio di essere partecipe di questi e altri miracoli che Dio compie ogni giorno nel cuore dell'uomo. Per tornare alle immagini usate, il sacerdote, con la grazia che viene dall'alto, è chiamato a far diventare la grata di una cella finestra che si affaccia su una splendida cattedrale.

 

Credo che per ora possiamo fermarci qui. Avremo modo di "rileggerci" sul sito, oltre che di vederci e conoscerci personalmente. Mi auguro di poter essere per voi un buon compagno di strada, un "collaboratore della vostra gioia". Noi preti "viviamo" del rapporto con la gente: per questo sono certo che le relazioni che intrecceremo saranno preziose per la mia crescita umana e spirituale. Spero sia così anche per voi...almeno un pochino. Un abbraccio di cuore

don Tonino

   
© Parrocchia Santa Maria della Candelora - Via Domenico Romeo n.5 - Reggio Calabria

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